La mia prima Startup Exit (al contrario)
Il 6 marzo mi sono chiuso in casa e sono rimasto in totale solitudine e isolamento per 95 giorni. Ho scelto di affrontare il lockdown con un approccio strategico e una dedizione militare per mettermi alla prova con sfide sempre più difficili: nuova routine per allenarmi e rafforzare il mio equilibrio mentale, lavorare sodo per DeRev e i nostri clienti, costruire una nuova startup, continuare a scrivere il mio libro e affilare le armi per ripartire. L’ho raccontato in un vlog che ho chiamato “Manuale di Resistenza” e che forse vi sarà capitato di vedere sui social. Dopo 95 giorni esatti, martedì mi sono svegliato alle 6.00 e sono andato a prendere un treno per fare 900 km attraverso l’Italia. La mia prima uscita di casa è stata per andare a fare la mia prima Exit. Che detta così non ha molto senso, per cui è necessario fare una premessa.
Chi ha mai sentito parlare di startup (o magari ha semplicemente letto la storia di Apple e Steve Jobs) saprà che non è altro che un’azienda appena nata. La differenza rispetto a un’azienda tradizionale è che una startup innovativa nasce per inventare un prodotto che ancora non esiste o rivoluzionare qualcosa che è già sul mercato: Mark Zuckerberg, ad esempio, ha fondato una startup di nome Facebook per creare un social network, mentre quando sono nate Airbnb, Amazon o Spotify la gente già affittava case, acquistava online e ascoltava musica, ma loro hanno trovato un modo innovativo e più efficace per farlo.
Spesso a fondare una startup non è un industriale ricco e affermato, ma un ragazzo squattrinato con l’intuizione giusta e le capacità per metterla in pratica. Dunque va alla ricerca di investitori che vogliano finanziare il suo progetto, investendo i propri soldi per diventare soci dell’azienda, con l’obiettivo di farla crescere e rivendere la quota in futuro. Da quel momento comincia la parte difficile: il ragazzo diventa a tutti gli effetti un imprenditore e si ritrova tutta la responsabilità di dover mettere in piedi un’azienda da zero, assumere persone che non conosce, con cui inventare un prodotto che non esiste, da lanciare su un mercato nuovo a cui potrebbe non interessare. Risultato: il 95% di tutte le startup innovative al mondo fallisce e muore nel primo anno di vita. Tra quelle che sopravvivono, alcune riescono a crescere fino ad andare in attivo, ovvero a guadagnare più di quanto spendono, e dunque a generare profitti. Nel migliore dei casi, questo percorso si conclude negli anni successivi con quella che viene chiamata Exit, quando i soci decidono di cedere le proprie quote e vendere l’azienda, magari a un colosso che vuole integrarla nel suo business.
Una lunga premessa per dire (a chi non mi conosce) che questo è ciò che io faccio nella vita. Quando avevo 27 anni, mentre preparavo una tesi di laurea che non avrei mai discusso, ho fondato una startup innovativa di nome DeRev e ho convinto alcuni fondi ad investire circa un milione e mezzo di euro nel mio progetto, a 30 anni ne ho fondato un’altra che è Giffoni Innovation Hub, e l’anno scorso la terza che si chiama Forekeep. In questi anni, DeRev è cresciuta raggiungendo risultati sempre più importanti, passando da una startup ad una vera e propria azienda, ma soprattutto trasformando me dall’essere uno studente fuorisede ad un CEO. Con DeRev ho affrontato alcuni dei momenti più difficili della mia vita, in cui ho creduto davvero che potesse fallire, ma abbiamo lottato, siamo sopravvissuti e poi abbiamo cominciato a crescere e ad espanderci.
Negli ultimi due anni ho lavorato quindi per lo step successivo: non ho mai avuto intenzione di vendere la mia azienda, ma ho puntato a un risultato più ambizioso. Una Exit Strategy al contrario, in cui è il fondatore a ricomprare le quote che all’inizio aveva ceduto ai propri investitori. Nei giorni scorsi questa sfida si è conclusa, perché io sono uscito di casa per la prima volta dopo 95 giorni e sono andato a Napoli, mi sono seduto davanti a un notaio e ho firmato l’acquisto delle quote del mio primo investitore per ricomprare la mia startup. Nel bel mezzo della crisi più profonda che il nostro Paese ricordi, io ho deciso di investire i miei risparmi e scommettere ancora una volta sulle mie idee, sulle capacità del mio team e sul futuro che ci aspetta.
Un futuro in cui continuerò sempre a ringraziare ed essere grato ai miei primi investitori per avermi dato fiducia, scommettendo così tanti soldi su un ragazzo che non solo non aveva mai guidato un’azienda ma non ci aveva mai nemmeno lavorato come stagista. Hanno creduto in me più di quanto facessi io stesso. E grazie a loro ho potuto accettare la più grande sfida della mia vita, rischiare tutto per un’idea, commettendo tanti errori ma imparando a superarli per maturare l’esperienza che ho oggi. È su questa base solida che ho costruito la reputazione, la fiducia e le risorse per fondare altre due startup e dar vita a tanti progetti in altri ambiti.
Il fondatore di un’altra startup, che si chiama LinkedIn, disse che un imprenditore è qualcuno che si lancia da un dirupo e costruisce un aereo mentre cade. A 27 anni ho capito che nella vita io sono quello che si lancia, oggi invece il mio piccolo razzo di carta ha cominciato a volare prima di toccare il fondo. E adesso si accelera per prendere quota verso sfide più avvincenti, altri mondi, nuovi orizzonti.
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